Io amo il Lupo. Nelle pieghe della storia umana (prima che la si potesse definire storiografia, dato che la scrittura nemmeno era stata inventata dai primi Ominidi sul pianeta Terra) si è dipanato l’eterno rapporto di amore/odio tra i primi uomini e le specie canine. Il primo connubio utilitaristico e reciproco ha unito canidi e uomini per fronteggiare le avversità dell’ambiente naturale e sopravvivere assieme.
Che sia stato il Lupo a “insegnare” (o meglio ispirare) le tattiche di caccia all’Uomo è altamente probabile; più che altro è facile che i primi clan tribali abbiamo imitato le fini tattiche di caccia dei branchi di lupi, e lo stesso valga per lo schema gestionale del clan/famiglia, anche in riferimento alla necessità di “pescare” genetica nuova per la riproduzione e non finire in stretta consanguineità ed estinguersi.
Questo “legame” quasi mistico è tanto concreto che svariati popoli di varie etnie e Continenti differenti hanno da sempre “adottato” – e ancora oggi lo fanno – lo “spirito del lupo” come totem, o si sono fatti da questo “proteggere”. Dagli antichi Mongoli di Gengis Khan ai loro discendenti diretti, i Tartari, ai Sioux Lakota, compagni e mèntori di John Dumbar (nel kolossal “Balla coi Lupi” con e di Kevin Costner), per arrivare fino alla saga di “Games of Thrones” (con il vessillo della famiglia Stark di Grande Inverno, il Meta-Lupo, creatura semi mitologica ), il Lupo è con noi, nel bene e nel male.
Con il giusto equilibrio
Insomma il Lupo piace, ed in qualche modo è sempre piaciuto. Ma come ogni elemento su questo pianeta, se mal gestito, porta alla rovina. Come dicevano gli antichi Romani “in medio stat virtus”. Ed anche i Romani ebbero riguardo e venerazione verso il Lupo: pensiamo solo all’iconografia classica/mitologica, che vede Romolo e Remo salvati e allattati da una lupa, o ai vessilli delle legioni romane portate attraverso gli archi trionfali e le celebrazioni sacre da soldati con copricapi e mantelli fatti di pelli di lupo.
Va considerato il fatto che tutti i popoli sopra elencati (e tantissimi altri sparsi nel mondo), da sempre, cacciavano e “contenevano” il lupo, sapendo che altrimenti questo magnifico figlio di Madre Natura si sarebbe trasformato in un mostro, nella concezione latina del vocabolo monstrum: prodigio, fenomeno portentoso, sia in senso positivo che negativo, pre-morale, buono e cattivo al contempo, e che supera i limiti della normalità.
Oggi il Lupo in Italia è ri-diventato (purtroppo!) un mostro con tutte le caratteristiche tipiche di un protagonista malvagio; non più il lupo delle favole, ma quello di un B-movie, dove le vittime sacrificali, senza scampo né dignità, ma funzionali al buon funzionamento della trama (e quindi alla “resa economica” al botteghino), sono nell’80% dei casi gli allevatori. Ma la colpa (perché non si parla di responsabilità, quanto di colpa nel senso doloso del termine) non è del Lupo, ma degli scellerati uomini e donne in posizioni di potere, che, con la scusa di proteggere il Lupo Italiano (che per altro sta subendo l’erosione genetica ad opera di cani randagi e meticciamenti a dir poco sospetti e improbabili in assenza di intervento umano), stanno dando il colpo finale al comparto agro-zootecnico, già ridotto ai limiti della sopravvivenza da mille altri fattori macro-economici, di mercato e sociali.
Dunque viva il lupo, ma viva anche l’allevatore. Ma come? Di seguito il mio punto di vista.
La questione rimborsi
La soluzione è una sola: vanno adottati sistemi di aiuto economico per la prevenzione. I sistemi repressivi, infatti, non si sposano con lo spirito libero dei pastori ed imprenditoriale degli allevatori, e con essi si ottiene un solo risultato: fomentare e creare lo scontro tra le parti. I tanto nominati e fantomatici rimborsi (esigui al limite dell’offensivo, e per altro, sempre tardivi), non si avvicinano nemmeno alla superficie della questione. Ogni allevatore o pastore – degno di tale nome – non vuole lucrare sulle morti inutili dei propri capi, ma vuole poter svolgere la sua attività in modo sostenibile e remunerativo.
Dopo una predazione, qualsiasi nucleo di animali domestici è irrimediabilmente danneggiato e “scosso”, ed anche i soggetti non feriti gravemente cessano di essere produttivi per periodi anche molto lunghi, diventando de facto una passività a carico dell’allevatore che deve ugualmente spendere denaro e ore lavoro per mantenerli, senza avere il profitto che normalmente renderebbero in quella stagione (come minimo una). Gli animali gravidi abortiscono, quelli in lattazione spesso smettono di produrre latte, lo stress e le ferite (anche non mortali) impegnano fortemente il sistema immunitario di questi soggetti che quindi restano “stentati” e non prendono peso (se sono animali da carne).
Tutti questi fattori, più le spese veterinarie e farmaceutiche indispensabili per l’eventuale “ripresa” produttiva, costituiscono sia un danno economico diretto che un pesante mancato guadagno, che nessun rimborso ha mai considerato.
Spesso, purtroppo, un gregge che ha subito predazioni ha due scelte preferenziali: una è il commerciante (che quindi paga all’allevatore una miseria), l’altra è la strada diretta al macello. Con i pochi spiccioli che restano in mano al pastore/allevatore, non resta molto da fare. Spesso quindi predazione è la parola che pone fine alla storia di quell’azienda , anche perché (e questo chi alleva in selezione lo sa benissimo) ci vogliono anni per selezionare un certo pool genetico, e non è sempre facile (e mai a buon mercato) reperire un degno rimpiazzo.
Anche nel caso in cui il pastore riesca a “rimettersi in piedi” e non getti la spugna, lo aspettano anni di duro lavoro per rimettere in sesto il suo patrimonio genetico. Ed anche qui le spese saranno immediate, e i futuri guadagni avranno un orizzonte temporale non facile da raggiungere.
Se anche questo step viene completato, non è detto che certi risultati eccellenti si riottengano in tempi congrui per riuscire a “resistere” alla pressione fiscale e alle spese aziendali.
Strumenti di prevenzione
Ecco dunque quali sono, sempre a mio modo di vedere, le contromisure applicabili.
- Recinzioni fisse e mobili elettrificate, “modulate” a seconda del tipo di territorio e del tipo di bestiame che devono contenere al loro interno. Esse devono infatti proteggere il bestiame domestico e respingere efficacemente l’animale selvatico in generale (si tenga conto della questione Ungulati: cinghiali e caprioli sconfinano e spesso danneggiano le recinzioni, che una volta violate sono oltrepassabili dal lupo).
- Cani custodi di ottima e verificata “qualità genetica”, selezionati per intervenire soltanto sul selvatico e non sull’uomo. Questi cani vanno cresciuti ed educati correttamente (per circa 2 anni minimo), meglio se con “cani tutor” anziani già di mestiere, e comunque sempre in muta (proporzionata al numero di capi da proteggere e alla densità di predatori presenti nell’areale), perché senza il corretto numero, i cani sono solo vittime sacrificali per i branchi di lupi.
- Gestione concreta e responsabile da parte di Enti e Stato, che essendo di fatto il proprietario della selvaggina e del patrimonio animale, ne deve anche garantire la gestione sostenibile per tutti i cittadini. Lo Stato – e le sue promanazioni – devono aiutare economicamente gli allevatori nelle spese di gestione maggiorate dove è presente il predatore, per prevenire l’esacerbarsi della già grave situazione. Nel caso, dato che ormai il lupo non è più specie a rischio estinzione, dovrebbero essere implementati dei piani di prelievo, gestiti ovviamente dagli enti preposti, per limitare l’impatto devastante delle predazioni sulle già critiche condizioni di agricoltori e allevatori.
Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 4 di maggio 2018.
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