Salta al contenuto

Transumanza, bella e impossibile

Riprendiamo il nostro viaggio citando le parole che l’ex Ministro Costa ha pronunciato nel dicembre 2019, in occasione del riconoscimento delle transumanze come bene immateriale dell’umanità: “Come ha evidenziato l’Unesco nella sua motivazione, la pratica della transumanza, rispettosa del benessere animale e dei ritmi delle stagioni, è un esempio straordinario di approccio sostenibile per affrontare le sfide poste dalla rapida urbanizzazione e dalla globalizzazione, e ha contribuito in modo significativo a modellare il paesaggio naturalistico.

La volontà di rafforzare i riconoscimenti Unesco in ambito ambientale è forte da parte del governo. In questa logica, con il decreto legge clima, approvato in via definitiva dalla Camera, abbiamo istituito i ‘caschi verdi per l’ambiente’, una task force di esperti mondiali con il compito di salvaguardare e promuovere proprio i valori naturalistici dei siti riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’umanità, stanziando 6 milioni di euro in tre anni per supportare le comunità e i territori chiamati a gestirli”. Dopo affermazioni così decise di un ministro, saremmo tutti portati a sperare in interventi fattivi e concreti a favore del mondo pastorale vagante nella sua interezza, ma è poi stato così?

Valori positivi

Prima di agire bisogna capire cosa si vuole fare e come, e viene istintivo farsi delle domande: come è nata la transumanza? Che ruolo ha avuto e potrà avere?

Quando le civiltà umane erano ai loro albori, la pastorizia si sviluppò in quel periodo geologico e climatico in cui si stava uscendo dall’ultima coda di era glaciale caratterizzata da una graduale mitigazione delle temperature planetarie. Come dimostrato dalle evidenze archeologiche, sappiamo che i sistemi pastorali si sono sviluppati maggiormente nelle zone climatiche più rigide, che sono spesso anche le più povere di risorse.

Questo sistema di vita (e sicuramente all’epoca di sopravvivenza) ha plasmato questa forma di allevamento le cui caratteristiche omogenee sono: resilienza, estrema adattabilità ed ecosostenibilità per antonomasia, dato che la sopravvivenza stessa degli armenti e dei suoi custodi dipende unicamente dalla risorse spontanee che l’ambiente può fornire, o meglio, dalle risorse che le capacità e la tenacia del “buon pastore” sanno ottenere dagli habitat e dai climi più proibitivi, anche a rischio della sua stessa incolumità e salute fisica. Col passare dei secoli e millenni, a passo di marcia per alcuni popoli, ed a passo di pascolo per altri, intere civiltà sono nate e morte, fino a giungere a noi nelle forme antropologiche che ancora oggi molte transumanze conservano intatte.

Verticali e orizzontali, tratturi e pagliare

A seconda delle condizioni ambientali ed economiche, la transumanza può essere di tipo orizzontale e verticale. La prima è tipica delle zone del Mediterraneo, più precisamente di quelle regioni nelle quali si alternano zone montuose e pianure che possono offrire un buon pascolo in autunno, inverno e primavera. Quella verticale è detta anche alpina, poiché viene effettuata lungo tutto l’arco alpino a quote e dislivelli importanti. In inverno e primavera, il bestiame pascola a fondovalle e viene foraggiato nelle stalle. Dalla fine di giugno, invece, viene fatto migrare nelle zone di alpeggio dove rimarrà fino a settembre inoltrato.

In entrambi i casi, gli spostamenti delle greggi possono interessare un ambito territoriale molto ristretto o, all’occorrenza, aree geografiche anche molto estese e distanti tra loro. In passato la transumanza veniva compiuta a piedi lungo itinerari fissati da un uso plurisecolare, lungo le strade pubbliche al bordo delle quali le pecore potevano pascolare, ma specialmente lungo i tratturi, grandi vie d’erba sulle quali viaggiavano insieme, per qualche centinaio di chilometri, greggi, pastori e cani. I tratturi potevano essere larghi fino a 111 metri e da essi si diramavano poi i tratturelli, larghi fino a 37 metri, che servivano da smistamento ed erano collegati tra loro da bracci larghi circa 18 metri e mezzo.

Per lo sfruttamento delle aree agricole montane e i pascoli di quota nacquero le pagliare, villaggi rurali d’altura, abitati per alcuni periodi dell’anno ed abbandonati tra gli anni ‘60-’70, oggetto in questi ultimi anni di accurati restauri. (R.M.)

L’esempio italiano

È chiaro che esistono svariate declinazioni di transumanza con caratteristiche uniche a seconda degli habitat geografici ed antropologici che fanno da scenario a questo “viaggio” nei vari continenti, e noi ci focalizzeremo sulle transumanze “italiche” con ovicaprini. Nel nord Italia la transumanza viene praticata dai pastori vaganti di quasi tutte le Regioni dell’arco alpino e lungo i suoi confini; nel centro Italia e nel meridione l’elemento è presente nelle Regioni Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Sardegna. Le “vie” preferenziali delle transumanze (come le “rotte carovaniere” di altre epoche) del nord seguono le “batide”, mentre le “autostrade per armenti” meridionali utilizzano ancora le antiche vie erbose dei “tratturi”, presenti in alcuni casi fin dall’epoca romana, e che testimoniano e dimostrano ancora oggi che può (e dovrebbe) esistere un rapporto equilibrato tra uomo e natura e un uso sostenibile e rinnovabile delle risorse naturali.

Il caso Mongolia

Un esempio emblematico e concreto delle conseguenze ambientali dell’assenza delle transumanze ci viene dalla Mongolia: questa nazione si è resa definitivamente indipendente nel 1992, ma nei decenni precedenti, la gestione politica della regione aveva collettivizzato il bestiame e tutte le risorse del Paese, impedendo quindi le tradizionali e millenarie transumanze stagionali che hanno da sempre caratterizzato l’habitat mongolo. Nel giro di (relativamente) pochi anni, non beneficiando dei residui organici assicurati dal letame per nutrire i terreni e senza avere la “potatura a verde” costante fornita dal brucare degli armenti, la Mongolia ha assistito a un impressionante aumento della desertificazione delle zone verdi ai margini del Gobi (che ha di fatto aumentato la sua estensione) e di molte altre zone limitrofe. Questo esempio macroscopico è un importante campanello d’allarme che dovrebbe far comprendere ai governi (quello italiano in primis) qualcosa rispetto ai gravi danni che l’assenza di una costante e mobile pastorizia porta agli ambienti ed agli habitat.

Scenario amaro

È stato stimato che ad oggi le persone che praticano questa forma di allevamento – e di vita – come principale o unica attività economica, sono dai 100 ai 200 milioni di persone sparse nel mondo; quindi, anche a livello occupazionale il peso della transumanza è notevole. L’arrivo, la partenza e il passaggio stesso di una transumanza è in se stesso un evento maestoso e per certi aspetti epico, un vero e proprio rito di tradizione culturale. Così era, e dovrebbe ancora essere; ma da quanto visto sul suolo nazionale è stato ridotto ad una sceneggiata tragicomica, una riesumazione più che una rievocazione. Bestiame portato in camion a poche migliaia di metri dall’arrivo in zone cittadine adeguatamente “agghindate” per il pubblico in attesa di poter “toccare l’agnellino” o farsi mordere dal cane pastore…

La nostra realtà normativa sta, da decenni, bloccando ogni reale possibilità di praticare le transumanze, tra leggi iper-protettive della fauna e della flora, e norme comunali e regionali che vietano anche solo il passaggio dei greggi o delle mandrie su quei percorsi (uno per tutti, i greti dei fiumi) che per centinaia di anni (in taluni casi anche migliaia) erano le “autostrade dei pastori”.

Ribadisco: a parte la stima per tutti quei miei colleghi allevatori che ce la mettono davvero tutta e che non si arrendono mai, resta però solo qualche spicciolo a coprire parte delle spese vive per questi eventi, e la desolazione di dover poi ritornare alla “guerra di trincea” con istituzioni e normative soffocanti e ingiuste che tutelano solo una parte dei protagonisti attivi delle transumanze, nello specifico la parte naturalistica riferita ai grandi predatori, ormai protagonisti indiscussi dello scenario.

In un fiorire costante e perenne di progetti milionari per tutelare specie ormai nemmeno più a rischio di estinzione (il lupo in primis, uscito dall’elenco delle specie a rischio estinzione nel lontano 2017), chi si sta estinguendo sono le transumanze, e con loro le famiglie e i “clan” di pastori e allevatori.

Senza un repentino quanto effettivo intervento economico, normativo e di governance mirato alla salvezza delle condizioni che sono prerequisiti indispensabili per attuare le varie transumanza italiane (verticali e orizzontali), questo bene dell’umanità lo potremo ritrovare solo all’estero o vedere in qualche vecchio filmato di archivio storico.

Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 05 di maggio 2022.

Image by wirestock on Freepik

Published inAllevatori TopBoviniOviniOvinicolturaZootecnia

Sii il primo a commentare

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *