Eccoci nuovamente qui a parlare di lupi: se qualcuno di voi si è preso la briga di leggere il documento pubblicato dalla Provincia autonoma di Trento sul link che vi ho fornito nell’ultimo numero (settembre 2021) di Allevatori Top, avrà certamente notato qualche dato preoccupante (e ci concentreremo esclusivamente sul capitolo lupi, tralasciando gli altri grandi predatori). Il documento dichiara che “lo sforzo di monitoraggio genetico nei confronti della specie è stato finora ridotto rispetto a quello messo in campo per l’orso, il quale resta prioritario”.
In un qualsiasi altro ambito economico e gestionale (sia pubblico che privato), quando un valore all’interno di una dinamica ha una variazione di più del 100% (sia essa positiva o negativa), ci sono due opzioni: o si apre lo champagne per festeggiare, o si scava la fossa per seppellire il cadavere. Ma per questo rapporto tecnico le regole sono diverse: seppur esso dovrebbe essere a servizio di tutta la popolazione, in realtà guarda a solo di una parte di essa, casualmente non quella che abita le zone marginali. Con un incremento dei danni denunciati di quasi il +120% (il dato preciso reso pubblico dalla presentazione parla per esattezza del +119,6%) e nonostante che le predazioni, per esplicita dichiarazione del documento, siano più numerose di quelle denunciate, per chi è nella condizione di dover “vigilare e controllare” il difficile rapporto tra fauna selvatica e attività antropiche, non è prioritario controllare l’espansione dei lupi!
Inquinamento genetico
Il problema, però, non è costituito solo dai predatori in sé, che da bravi animali, “fanno solo la loro parte”. La vera e più pericolosa insidia per il mondo rurale in generale, è costituita da ciò che arriva assieme all’aumento dei predatori: le attività pseudo-turistiche ad essi strettamente correlate, dove volontari e tecnici “parvenu” sono i veri (e profumatamente pagati) attori protagonisti. Costoro sono gli unici che ci guadagnano (nel vero senso della parola e in busta paga), mentre i paganti sono da un lato quelli che subiscono i danni da selvatico, e dall’altro i turisti del week end. Ma i secondi almeno passano delle ore spensierate e si rilassano, invece per i primi non c’è altro che ansia, notti insonni e cartelle esattoriali. È quindi chiaro che “lo sforzo” per l’unico approccio scientifico atto a dimostrare l’inquinamento genetico che ormai da anni sta falcidiando il Lupus italicus non deve avere luogo. Se venisse applicata in toto la legge in merito – per altro esplicitata nei vari regolamenti europei, normativa Habitat in primis – per i lupofili finirebbe la pacchia.
Studi accademici pan-europei e statunitensi hanno esplicitato problematiche e lacune rispetto al business del “lupo italiano”. Queste perplessità (e nemmeno tanto celate critiche da parte di tecnici ed accademici tedeschi e francesi) sono state rese note anche in Italia, l’ultima volta nel 2018 a Roma (convegno Ispra: “Verso un piano nazionale di monitoraggio del lupo”); ma da noi in Italia la lobby accademica pro-rewilding le tiene bene nascoste, oppure le bolla di incompetenza definendole “non vere”.
E con questo, complici i mass media pro lupo, il discorso è chiuso. Eppure, a leggere i dati di più studi scientifici (ad esempio la ricerca di Salvatori e coll., pubblicata nel 2019 sull’European Journal of Wildlife Research), il lupo italiano è in elevate percentuali il lupo italiano è ormai per oltre il 70% un “ibrido di lupo” o un “meticcio randagio” e le leggi europee ed italiane prevedono per entrambe queste categorie, l’abbattimento, o la cattura con detenzione in apposite strutture. Queste soluzioni dovrebbero essere applicate sia per questioni di sicurezza pubblica, sia per motivi squisitamente zoologici ed etologici, atti a salvaguardare quel poco che resta del Lupus italicus. Ma questo aspetto non interessa i tecnici “incaricati” in modo ufficiale: ancora una volta ci dicono quanti “dei loro” hanno messo sul campo e a cui hanno pagato la formazione e tutto il resto per dar man forte al selvatico. Ci dicono che anche coi soldi pubblici “sono stati coinvolti e formati circa 80 operatori tra personale e collaboratori del MUSE, personale di sorveglianza e tecnici dell’Associazione Cacciatori Trentini e volontari afferenti a varie associazioni (SAT-CAI, Io non ho paura del lupo, WWF e AIGAE)”. I “nuovi” e i vecchi tecnici, con gli immancabili volontari, andranno dunque in giro a spese della collettività (quindi anche nostre) per raccogliere dati e “individuare potenziali esemplari dal fenotipo anomalo”. Anche su questo punto c’è da spendere qualche parola (vedi box).
Il fenotipo non dice nulla
Noi che facciamo selezione genetica sappiamo bene che un soggetto che fenotipicamente manifesta caratteri non conformi ad uno “standard di razza” (o specie in questo caso) potrebbe invece essere geneticamente più “puro” di un altro che invece esprime esteriormente un aspetto morfologicamente corretto. E dato che queste quattro regolette della genetica mendeliana le sappiamo anche noi allevatori, ci chiediamo: perché non vengono utilizzate le moderne tecniche genetiche e genomiche (che oggi non hanno costi proibitivi, ed hanno il pregio di essere precise ed infallibili) per “ripulire” il pool genetico dei “lupi italiani” e per ridare al nostro territorio il nostro Lupo italico? Mi rendo conto che questa è una domanda importante e che meriterebbe risposte altrettanto importanti, ma purtroppo chi di dovere non intende affrontare un concreto, onesto dibattito o un contraddittorio pubblico, perché rimanere arroccati nella propria turris eburnea e conservare l’autoreferenzialità garantisce il totale controllo sul territorio nazionale, ed il gradimento politico da parte del grande pubblico, debitamente ammaestrato dai mass media. L’importante è intercettare i turisti del weekend. (R.M.)
Non c’è terzietà
“Alle segnalazioni ottenute tramite monitoraggio standardizzato – continua il documento – si aggiungono quelle di tecnici e volontari che hanno messo a disposizione la loro strumentazione ed esperienza a questo scopo”.
Pure qui c’è molto da dire: in quale ambito pubblico è consentito ai privati fornire dati pro pri, che poi diventano ufficiali e determinanti? Sarebbe come se per far approvare una pratica edilizia portassi i miei dati, raccolti e catalogati da me! Oppure credete che se portaste ad una qualsiasi assicurazione o ente sanitario un certificato medico che “certifica” una vostra patologia o infortunio, fatto dalla vostra vicina di casa, avrebbe un qualsiasi valore legale? Se questo buon senso si applica a praticamente ogni ambito nella società civile, perché i dati spontaneamente prodotti e forniti da “volontari” e vari soggetti delle molte realtà animaliste hanno de facto valore legale e tecnico, mentre gli stessi dati non possono essere confutati o forniti dalle vittime dei danni? Bella domanda vero?
Stime al ribasso
Come da consuetudine ormai stratificata, le raccolte dati dei cosiddetti specialisti forniscono sempre e solo modelli predittivi e stime ribassate, e con tutto questo sul rapporto ufficiale viene scritto che “i dati raccolti nel loro insieme fanno stimare, nel 2020, una consistenza minima pari a 17 branchi” (vedi grafico 1 e mappa). Praticamente siamo di fronte a una vera e propria invasione, dove l’incremento annuale è costante. Seguendo questa linea grafica di espansione, ottenuta dai dati ufficiali, in questo 2021 dovrebbero esserci non meno di 23-25 branchi sullo stesso territorio dove nel 2020 ne erano stimati 17. Ma il rapporto prosegue seraficamente dichiarando solo che “il trend in atto conferma che è in corso una fase di rapida ricolonizzazione del territorio trentino da parte della specie”.
Anche in questo caso le proiezioni ottenute dai tecnici sono quantitativamente manchevoli: è infatti stabilito dalla comunità scientifica internazionale che la percentuale di lupi morti per cause naturali o per incidenti stradali/ferroviari rappresenta il 10% della popolazione viva in una data area. Visto che il rapporto della Provincia autonoma ci dice che “in totale sono 11 gli esemplari di lupo dei quali è stata accertata la morte dal ritorno della specie in provincia”, allora i lupi presenti in questo areale dovrebbero essere come minimo 110. Invece i dati pubblicati dai tecnici dichiarano che i soggetti sono 91 al massimo (per chi volesse verificare le cifre, sono ben scritte nella presentazione in Power Point che la Provincia autonoma ha divulgato nella sua conferenza stampa).
Praticamente mancano alla conta una ventina di lupi, ovvero circa 3 grossi branchi. In tutto il resto d’Europa (Svizzera, Francia e Germania ecc.) le forze dell’ordine si mobilitano per un singolo lupo “fuori posto”, ma in questa Italia ne abbiamo tanti di lupi, che anche una ventina che “spariscono dal radar” non fa scalpore, anzi, è un gioco da ragazzi per gli “esperti”, e nessuno ha nulla da obiettare, specialmente non avendo voce in capitolo.
Non gestiti
Le parole conclusive del capitolo lupi dovrebbero essere consolanti: “da ultimo va ricordato che la presenza del lupo in Trentino è parte di un fenomeno di scala assai maggiore di quella che interessa il territorio provinciale. Quasi tutte le popolazioni di lupo presenti in Europa sono di fatto oggi collegate tra di loro, costituendo un’unica meta-popolazione europea di circa 17.000 esemplari (fonte LCIE 2018)”. Perfetto. Ma perché da noi la loro presenza non è gestita né limitata?
Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 08 di ottobre 2021.
Photo bY Inverno foto creata da vladimircech – it.freepik.com
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