Tentare di definire in maniera univoca e precisa le dinamiche che la presenza del lupo sta innescando e scardinando nello scacchiere nazionale ed europeo, equivale alla “cerca” quasi mitologica del Sacro Graal. Tenterò di riprendere le fila del discorso lasciato in sospeso quasi un anno fa sulle pagine di questa rivista.
È impossibile e insensato parlare dei grandi predatori senza spendere qualche parola sulla potente compagine sociale ed economica che li sta di fatto proteggendo a spada tratta; la “marcia forzata” dell’inarrestabile falange VegAnimalista verso la riconquista selvaggia (in tutti i sensi) dei territori marginali antropizzati è guidata e sponsorizzata a suon di milioni di euro dall’intervento di quelle lobby radical-chic che trovano espressione nei moltissimi progetti milionari targati LIFE, Rewilding Europe, WWF, ecc. I mass media e de facto molti dei nostri politici sembrano voler appoggiare un piano mirato a impadronirsi di tutti i territori possibili, a costo di sottrarli agli attuali abitanti umani.
Per raggranellare voti e mantenere quindi le loro poltrone, quegli stessi politici non perdono occasione di spendere lacrime di coccodrillo a telecamere accese per ogni “povero” orso imprigionato. Le stesse lacrime non sgorgano, però, quando si parla di padri che non possono mantenere i propri figli con il lavoro agricolo, o di madri che perdono lavoro e casa congiuntamente all’azienda agricola familiare.
Il caso Colorado
Per far capire come le macrodinamiche politico-economiche siano ormai globalizzate, farò un breve sunto di un articolo del National Geographic pubblicato il 5 novembre 2020. Douglas Main, autore del pezzo, ci dice che per la prima volta negli Usa è stata decisa le reintroduzione di una specie estinta tramite voto popolare; in Colorado l’estinzione del lupo grigio tramite caccia e taglie governative risale agli anni ’40 del secolo scorso.
Il Colorado Parks and Wildlife Department ha stabilito la reintroduzione di nuclei di lupo grigio entro il 2022/23. Gli oppositori alla reintroduzione lamentano che la vittoria della fazione pro-lupo è stata minima (1.495.523 voti a favore e 1.475.235 contro), e che , ovviamente, la maggioranza dei voti pro-lupo son arrivati da gente di città, che sono in maggioranza – anche in questo scacchiere – strenui difensori della causa pro-lupo, soprattutto visto che nel marzo 2019 il governo Americano ha ufficialmente cancellato il lupo dall’elenco delle specie a rischio estinzione. Non è un caso che i funzionari governativi del Colorado avevano fino ad oggi evitato la reintroduzione del lupo sul territorio del loro Stato: conoscendo la realtà rurale di allevatori e ranchers, sapevano benissimo il devastante impatto che avrebbe avuto sull’economia del settore zootecnico e agricolo.
Memori dell’impatto che la reintroduzione del lupo nel Parco Nazionale di Yellowstone ebbe non solo in Idaho, ma anche in Montana, Stato di Washington, Oregon e nella California del nord, sono doverose alcune considerazioni. Dove la retorica naive della “ricolonizzazione naturale” non trova buon riscontro, entrano in gioco le lobby che “danno un passaggio” ai branchi di lupi per bypassare ogni tipo di ostacolo, naturale o sociale che sia. Traduzione: dove il settore agro-zootecnico, per ovvie e giuste ragioni economiche e sociali, è riuscito legalmente a bloccare il ritorno dei grandi predatori, i supporter del re-wilding arrivano a gamba tesa facendo leva sulla miopia delle masse cittadine, incantate dal modello disneyano di natura “pucciosa ed innocua”.
Differenze vistose
Ci sono radicali differenze, però, tra il contesto Usa e quello italiano, e ve ne faccio notare un paio di un certo peso. In Colorado la reintroduzione del lupo è stata per lungo tempo bloccata (in modo responsabile) dalle istituzioni governative, che avevano correttamente stimato l’impatto che le predazioni avrebbero avuto sul comparto produttivo zootecnico; non a caso l’industria del bestiame, alcune associazioni di cacciatori e l’Ufficio per l’Agricoltura del Colorado si sono unite per prendere le difese del comparto agro-zootecnico e venatorio, cosa che da noi non è assolutamente successa, e sembra che non succederà. Insomma, come sempre, mentre noi allevatori italiani ci facciamo le miserie l’un l’altro (di fatto favorendo gli avversari del re-wilding selvaggio, che invece lottano uniti e strategicamente organizzati), nessun sindacato o ente ci sta patrocinando in modo efficace; altro che far rete e creare sinergie per proteggere il comparto agro-silvo-pastorale e la ruralità che esso incarna.
A mio parere, la politica e i sindacati italiani (e dell’eurozona in generale) dovrebbero prendere una netta posizione di contrasto con alla lobby del re-wilding e contro le sue promanazioni (WWF, progetto LIFE ecc.), come i cugini a stelle e strisce hanno fatto.
Un altro fattore sconcertante della situazione italiana è che le associazioni LIFE, il WWF, ecc., stanno prendendo, da decenni, milioni di euro di denaro pubblico e li stanno gestendo senza render conto a nessuno. Parliamo ormai di decine di milioni di euro che dovrebbero essere gestiti per tutti gli abitanti della Penisola, non solo per quelli che vivendo in città vogliono avere la “natura selvaggia” a pochi chilometri da casa. Visto che la selvaggina e gli animali selvatici sono “bene indisponibile dello Stato”, perché essi vengono “dati in gestione” ad una manciata di persone, tutte della stessa fazione? Costoro (accademici di stampo animalista, volontari vegani e “neorurali” radical-chic che vivono quasi sempre in centro città) stanno di fatto gestendo tutto lo scacchiere tramite una pesante e tentacolare azione di sdolcinata mistificazione di cosa sia “vita agricola”. Da almeno 30 anni, inoltre, stanno esercitando una pesante influenza politica anche sui sindacati di settore.
Al punto in cui siamo è ormai indispensabile (seppur tardivo!) un concreto intervento politico da parte di quelle forze che hanno realmente a cuore la sopravvivenza delle comunità rurali e pastorali italiane; mentre negli anni ’70 il focus era proteggere lupi, orsi ed aree selvagge incontaminate, oggi il target dovrebbe essere quello di preservare dalla distruzione quei patrimoni culturali e di biodiversità che solo l’allevamento e l’agricoltura locali stanno ancora sostentando con le loro esigue forze.
Transumanza si o no?
Mentre l’Unesco ha riconosciuto la transumanza come Patrimonio Mondiale dell’Umanità, la politica italiana (sotto pressione delle lobby animaliste e vegane) sta distruggendo la possibilità di fare le transumanze, sia lungo i millenari tratturi del centro sud che negli alpeggi del nord Italia. Quando l’ultimo allevatore avrà gettato la spugna di fronte all’insostenibile sequela di ingiustizie che tutto il settore-agro zootecnico sta subendo, chi potrà più tramandare l’antico sapere dei pastori? Quando l’ultima azienda agricola familiare situata in zona montana cederà il passo, chi preserverà le innumerevoli “perle” di biodiversità di cui l’Italia è l’indegno scrigno a cielo aperto? Distruggendo le piccole realtà familiari locali, si distrugge il tessuto sociale di quell’Italia che ha plasmato nei millenni sia il territorio (pensiamo ai muri a secco in Liguria e sulle Alpi, ma anche alle bonifiche di numerose paludi), che le razze e le specie animali e vegetali.
In assenza del passaggio ciclico e gestito di greggi e mandrie i pascoli montani spariscono, dando spazio agli squilibri trofici che, assieme al cambiamento climatico, innescano tutti quei fenomeni di dissesto idrogeologico che stiamo vedendo aumentare esponenzialmente anno per anno.
Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 10 di dicembre 2020.
Image by vladimircech on Freepik
Sii il primo a commentare