A livello mondiale il settore zootecnico ovino è tendenzialmente direzionato all’allevamento di razze a duplice attitudine (lana/carne), per avere profitto sensato da due mercati in forte ascesa; a seconda del tipo di territorio, clima e continente in cui l’allevamento viene praticato, queste due caratteristiche della specie Ovis vengono enfatizzate o ridimensionate tramite la selezione operata dall’Uomo. Anche in Italia, nei tempi andati, si gestiva le selezione delle razze autoctone su questi due filoni principali; poi, dal dopoguerra ad oggi, l’inarrestabile ondata sarda – con la collaborazione dell’ormai superata gestione monopolistica dei Libri genealogici – ha letteralmente spazzato via tutto quello che non era latte e latte soltanto (non me ne vogliano i colleghi sardi, ma il loro decennale lavoro sul settore latte ha dato a tutto lo Stivale un’enorme impronta).
Errori del passato
Quasi tutto l’enorme patrimonio zootecnico e di conoscenze e tradizioni italiane, promosso e gestito nel Ventennio dal regime fascista, è finito nel dimenticatoio; si salvano pochi vecchi libri, che qualche studioso o appassionato si è accaparrato magari in qualche asta online o ha reperito nei mercatini dell’usato di mezza Italia.
Un vero è proprio “tesoro” culturale e di tradizioni pastorali ha subito di fatto una damnatio memoriae: basti pensare ai grandi centri di selezione nazionale degli anni ’20-’30 in cui venivano importati riproduttori pregiati da tutto il mondo e in cui vennero letteralmente inventate nuove razze come la Trimeticcia di Segezia.
Per imporre de facto il monopolio della pecora Sarda, ad una sola attitudine (latte), ogni altra dote della pecora è stata tralasciata: basta vedere che tipo di lana producono le pecore moderne in Sardegna e valutare le rese in carne – imbarazzanti a dir poco – per capire che entrambe queste “doti potenziali” sono state escluse (contrariamente a quanto fatto in Francia con la Lacaune, razza nata da carne e “girata” anche a latte, ottenendo due linee differenti di selezione).
La lana della pecora Sarda va smaltita; qualche progetto ha tentato di farne coibentante per l’edilizia o filtri per le acque reflue nei porti, ma oggettivamente nessuna delle due soluzioni ha dato risultati degni di nota.
Guardiamo avanti
Le nefaste conseguenze di queste poco lungimiranti scelte produttive e selettive, oggi vengono amaramente pagate da tutto il comparto ovino italiano, allevatori sardi in primis. I disperati e plateali gesti di protesta messi in campo dagli allevatori sardi nell’arco dell’ultimo anno, hanno a mio parere dimostrato (e stanno ancora dimostrando purtroppo) quanto sia inutile piangere sul latte versato (o sversato per le strade e piazze italiane); gli unici risultati tangibili ottenuti sono stati i non pochi problemi legali che hanno travolto molti dei “ribelli”, e qualche timido tavolo di lavoro. Ciò che possiamo fare tutti noi che siamo coinvolti nel settore zootecnico ovino è valutare adeguatamente le tendenze globali e tentare di assecondarle o inventarci la nostra micro-nicchia (o mini-filiera) per portare avanti la nostra passione (e le nostre aziende) in modo economicamente sensato, e magari remunerativo.
Attingere dalla biodiversità
A tal proposito i due filoni principali su cui il mondo sta puntando sono – come dicevo – carne e lana, e data la correlazione stretta tra una caratteristica e l’altra, recita il detto: “buona lana, buona carne”, quel che possiamo fare in casa nostra è tirar fuori dal cilindro (costituito dall’enorme biodiversità delle amate, “vecchie” razze italiane) qualche buon “filamento genetico” su cui impostare in modo moderno e scientifico le nostre selezioni zootecniche, direzionando i nostri attuali greggi verso quelle enormi aree del mercato globale che si stanno pian piano profilando di fronte a noi.
Se non ce la sentiamo di buttarci nel mare magnum del mercato estero, caratterizzato da deposito di Dna, genealogie, Performance Test, Progeny Test e genomica, almeno dovremmo tentare di occupare quella parte di prodotto ovino che ancora oggi l’Italia acquista e importa dall’estero (parliamo di non meno del 70% del mercato ovino nazionale, dati Ismea alla mano). Per andare nella direzione selettiva e gestionale più adatta alle richieste odierne è necessario però liberare il campo da tutti quegli orpelli (divenute vere e proprie zavorre) costituito dall’approccio dogmatico e tradizionalista, per non dire antiquato e autolesionista, che spinge alcuni miei colleghi a dire: “non l’ha mai fatto nessuno qui”, oppure “mio nonno ha sempre fatto così…”. Oggi il nostro mestiere è un percorso ad ostacoli, ed anche il mercato è più globalizzato, “volubile e spietato” di una volta. Di seguito propongo un esempio che a mio parere è significativo.
Definizione di agnello
La relativamente nuova definizione merceologica di “agnello” è la seguente: “young sheep under 12 months of age or which do not have any permanent incisor teeth in wear”. La traduzione letterale è: “giovane pecora sotto i 12 mesi o che non abbia ancora messo i denti incisivi permanenti”. In base alla vecchia definizione, non appena il primo dente incisivo da latte cadeva, il capo bestiame non era più considerato agnello/a, mentre ora, finchè entrambi gli incisivi definitivi non hanno superato la linea dei denti da latte, l’animale è considerato agnello; considerando che nelle razze di mole grande o gigante questo processo dello sviluppo è piuttosto tardivo, ci ritroviamo oggi ad avere agnelli di 18 mesi.
Posso confermare questo fatto personalmente, avendo allevato pecore Suffolk ed allevando adesso pecore Bergamasche; non è infrequente che i maschi “spacchino i denti” (cioè che cada il primo dei denti caduci da latte) a 14-15 mesi, e per far si che erompano entrambi gli incisivi definitivi si arriva anche ai 18 mesi. Di questo cambio di assetto merceologico se ne parla dal 2018, ed è entrato in vigore/uso sul mercato australiano, neozelandese e quindi globale, nella primavera 2019. Sia l’Associazione dei produttori ovini australiani che il Consiglio dei produttori industriali di carne australiani hanno convenuto che la definizione e la classificazione delle categorie merceologiche del settore ovino andava aggiornata, dato che era dai primi anni del ’900 che era ferma su criteri che all’epoca avevano un loro senso, ma oggi sono e sarebbero penalizzanti verso i produttori e i consumatori.
Il concetto base è che data la corretta selezione genetica, le razze moderne arrivano ad avere tagli pregiati e pezzature che una volta erano tipiche di animali adulti, i quali però, a livello di prezzo di mercato, hanno minor valore economico. E quindi se l’animale viene catalogato come montone adulto o pecora, il prezzo scende notevolmente.
Cambiare registro
Con le metodologie di valutazione moderne, basate non tanto più sulla dentizione, ma sulla valutazione dei tagli pregiati che si ottengono dalle carcasse, e dalle caratteristiche organolettiche dei suddetti tagli (che oggi possiamo misurare oggettivamente con sistemi scientifici largamente implementati sul mercato globale), si garantisce al consumatore finale un prodotto di miglior qualità ed omogeneità (pensiamo, ad esempio, ai ristoratori, che pretendono uno standard replicabile per i loro prodotti finali), e diamo al produttore un prezzo più equo e remunerativo.
L’applicazione concreta di questi nuovi parametri merceologici ha già manifestato le sue ripercussioni sui prezzi delle aste ovine di mezzo mondo, che hanno visto prezzi in aumento anche su quei capi di peso intorno agli 85 kg che prima erano penalizzati utilizzando strumentalmente le vecchie definizioni di agnello/pecora.
Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 06 di luglio 2020.
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