In un periodo come quello che stiamo attraversando tra lockdown, emergenze sanitarie e di altro genere, tutti stiamo aspettando di capire da che parte girerà il mercato, e se sarà possibile recuperare le “vecchie” filiere produttive o se sarà (come penso io) necessario inventarne di nuove.
Diventa importante, oggi più che mai, conoscere e capire approfonditamente le regole, scritte o non scritte, e le dinamiche del mercato globale in cui ci troviamo immersi, per non rimanerne travolti o soffocati finanziariamente. Avere ben chiara la mappa del territorio in cui ci si muove è sempre il primo passo per prendere bene le misure sulla propria realtà aziendale, sia essa grande, o minimale, di nicchia o di filiera industriale, per plasmarla ove possibile, o adattarsi ove necessario.
Quindi, passiamo ad analizzare alcune informazioni fondamentali rispetto al settore merceologico della carne ovina. Per iniziare partiremo da una panoramica del settore globale, per poi calarci nella realtà nazionale, con le sue sfaccettature regionali, che sono la prima conseguenza e plusvalore della tanto decantata e ricercata biodiversità italiana in ambito agro-zootecnico e quindi agro-alimentare.
Classificazione SEUROP
Nella produzione di carne, indipendentemente dalla specie allevata, il primo strumento con cui dobbiamo confrontarci in tutta Europa è la griglia di valutazione della carcassa, denominata SEUROP. La classificazione delle carcasse ovine si effettua valutando prima la conformazione e successivamente lo stato di ingrassamento (da 1 a 5, con valori crescenti a seconda della percentuale di grasso).
La conformazione è suddivisa in 6 classi, indicate dalle lettere: “S” (superiore), “E” (eccellente), “U” (molto buona) , “R” (buona), “O” (media), “P” (mediocre/scarsa), che si riferiscono allo sviluppo muscolare. Tale classificazione serve per differenziare animali con profili marcatamente convessi e quindi con alte rese quanti-qualitative di macellazione (classe S), da soggetti con profili rettilinei e basse rese quanti-qualitative (classe P). Sulla base di queste conoscenze, sarà più facile comprendere il perché certi tipi di razze e incroci vengono pagati bene, mentre altri vengono – giustamente – sottopagati o addirittura non acquistati dai commercianti di bestiame e dai macellai; è ovvio che quando hai per le mani un soggetto giovane che dovrebbe dare una resa al macello superiore al 50%, ma ti ritrovi un soggetto senza spalla, con schiena corta e rene quasi mancante, e cosce spioventi e ossute, preferisci non avere sul tuo conto le spese di trasporto, macello ecc. a fronte di poca polpa e tanto scarto. Per ogni soggetto che trasporti e macelli spendi una cifra X, ma da alcuni soggetti hai il doppio o il triplo peso in tagli pregiati, mentre da altri hai tantissimo scarto; è facile capire il perché ci siano differenze così abissali tra i prezzi pagati per agnelli di 4-5 mesi, che solo teoricamente sono equivalenti di valore.
Fattore età
Un altro fattore determinante è costituito dall’età in cui questi capi raggiungono la stazza e il peso ideale per il macello: alcune razze hanno bisogno di pochissimi mesi per raggiungere il peso di circa 40-45 kg (il peso minimo che viene richiesto sul mercato standard europeo e globale per il macello degli ovini), mentre per altre non basterebbe un anno.
Oltre alla maggiore spesa per il nutrimento e il rischio di impresa, rappresentato soprattutto da possibili incidenti o malattie, le qualità organolettiche delle carni variano parecchio in riferimento all’età dei capi, non solo per la percentuale e quantità di grasso (che con l’età può diventare troppo alta), ma anche e specialmente per la tipologia di grasso.
Studi scientifici hanno infatti dimostrato che dopo un certo periodo, ed in alcune razze piutto sto che in altre, lo stesso grasso che fino ad una certa età era benefico per la sua composizione acidica (ricco di acidi grassi della serie omega-3 e omega-6) e rendeva morbide e saporite le carni, sviluppa gradualmente un sapore sempre più forte e, negli ovini adulti o vecchi, può tendere all’irrancidimento. Questo è uno dei motivi per cui non tutte le carni ovine possono essere lavorate per produrre derivati ed insaccati (ma di questo magnifico e succulento argomento parleremo in un prossimo articolo).
La realtà italiana
Ora che abbiamo accennato alla classificazione europea/mondiale delle carcasse ovine, facciamo un volo radente sulla situazione da noi in Italia: purtroppo qui si apre una frattura netta e profonda tra la realtà internazionale (ovviamente dominante a livello economico) e tutti quei tentativi nazionali di piazzare a tutti costi anche quei “sottoprodotti/derivati/scarti” della filiera lattiero-casearia ovina che fino a pochi anni fa erano catalogati sui testi di zootecnia come “scarto del latte” (gli agnelli nemmeno slattati delle pecore di razze da latte). Potrà sembrare cinico definire gli agnelli delle pecore da latte come “scarto”, ma questa è la cruda realtà.
Considerando i ritmi di crescita e le pezzature minimali che questi agnelli raggiungono, e data quindi la loro effettiva profittabilità sul mercato moderno, il rapporto valore/spesa per crescerli è praticamente sempre negativo; non a caso, spesso, la loro fine è il mero smaltimento, dato che la spesa del latte in polvere per alimentarli abbastanza per portarli al macello è infruttuosa.
Personalmente credo che dagli anni ’60 ad oggi sia stato creato ad hoc tutto un sistema di merceologia per sostenere il traballante settore lattiero caseario ovino, protagonista di crisi profonde, strutturali e per nulla risolte. Anche in relazione alle recenti dinamiche pre-pandemiche del prezzo del latte e dei dazi doganali sui formaggi italiani, non è pensabile sacrificare l’intero settore zootecnico ovino, senza distinzioni di sorta, per favorire il prolungarsi della lenta ma inesorabile contrazione del settore lattiero caseario ovino nazionale.
C’era una volta l’abbacchio
Anche qualora l’allevatore/casaro riesca a portare i suoi agnelli da latte sul mercato, gli resta in mano un prodotto che negli anni è diventato un anacronismo. Le “feste comandate” cristiane non bastano più a tener su una filiera come quella dell’abbacchio o, più in generale, dell’agnello tipicamente pasquale o natalizio. Se una volta le famiglie avevano le abilità culinarie e il tempo da dedicare alla preparazione di questi piatti o di altre prelibate ricette tradizionali, oggi la realtà è che il tempo è tiranno e sempre più scarso; servono prodotti “user friendly”, con tempi di preparazione veloci e pratici così da poter mettere in concorrenza le carni ovine con una semplice bistecca o un rapidissimo hamburger.
Domina il fake
Purtroppo, sull’onda della necessità di piazzare sul mercato un tipo di prodotto scarso di resa, si è creata una cattiva, se non del tutto mendace, informazione. Sono tante le piatta-
forme che forniscono dati inesatti ed irrealistici. Partono col raccontarci che ci sono agnelli che a 30 giorni non hanno mangiato altro che latte e pesano 8 kg vivi, e con carcasse di 6 kg; poi ci dicono che l’abbacchio non è l’agnello da latte, mentre sono la stessa cosa. Continuano con l’agnello da latte pesante che pesa 14 kg vivo, 8 kg carcassa a 7 settimane (50 giorni, incoerente col peso raggiunto a 30 giorni). A seguire l’agnellone “bianco” (?) che viene alimentato a mangimi, e per questo ha un miglior gusto, macellato a 6-7 mesi – e qui viene il bello – con peso vivo di 30-40 kg e carcasse di 25-30 kg! Letteralmente l’agnellone dei miracoli, forse per questo che è “bianco”: divino, con queste rese! Ma ora prepariamoci per il pezzo da novanta: l’agnellone bianco pesante, con un peso vivo intorno ai 50-60 kg, ed età non specificata. Sapendo che il suo mitologico collega arriva a 40 kg in quasi 7 mesi (dati forniti dalla stessa fonte nella stessa pagina), questi agnelloni bianchi pesanti dovrebbero avere oltre l’anno di età per fare 60 kg. Sappiamo che più mesi ha un ovino, maggiori sono i tempi di ingrasso e crescita ponderale, e sappiamo anche che negli ovini maggiore è l’età, minore è in proporzione la resa al macello.
Pecore magiche
Parlando del castrato e della pecora giovane poi, questi fenomeni alchemici dell’allevamento ovino e della sua commercializzazione ci regalano due chicche impagabili. E qui cito direttamente: “Castrato, è l’ovino maschio che ha superato gli 8 mesi e che per mantenere la saporosità e succosità della carne, viene castrato. La carne di castrato è in assoluto quella più saporita e dal marcato sentore selvatico”. Mi rifiuto di commentare.
“Pecora giovane, ha un peso vivo medio di 35 kg, mentre la carcassa di 20 kg” Anche qui dovrei mettere un no comment secco, ma faccio solo notare due cose: non si macellano pecore giovani produttive, ma solo pecore malate o infortunate, ed anche in questi infausti eventi una pecora che pesa 35 kg adulta, mi chiedo come fa a generare gli agnelli che fanno i pesi che ci dicono precedentemente, ed in gran finale, anche questa è una pecora del miracolo, dato che pesa 35 kg viva e ci dà 20 kg di carcassa, con una resa al macello del 60% circa, mentre le pecore “normali”, data la composizione morfologica degli adulti, rendono di media il 35%. Ma loro hanno pecore magiche, mentre noi, poverini, tentiamo di allevare pecore vere e di portare sul mercato prodotti veri.
Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 05 di giugno 2020.
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