Con l’abrogazione della Legge n. 30 “Disciplina della Riproduzione Animale” del 15 gennaio 1991, e il conseguente vuoto normativo che ancora stiamo vivendo in attesa di un decreto attuativo del D.Lgs.52 dell’11 maggio 2018, il comparto ovino da carne è in ebollizione violenta e sta sciabordando. Come sempre succede quando qualcosa va male, è iniziata una caccia alle streghe per individuare responsabili e colpevoli, nessuno ha il coraggio di prendersi questo enorme fardello sulle spalle, e dubito sia possibile trovare un unico responsabile.
Se parli con gli allevatori, la crisi è colpa degli enti preposti che non hanno fatto quel che dovevano e dei tecnici troppo zelanti e teorici; se parli con gli enti, è colpa degli allevatori incompetenti e disonesti e dei tecnici poco incisivi con gli allevatori; se parli con i tecnici è colpa degli enti inadatti alle realtà locali e degli allevatori non collaborativi. Credo che, come recita il detto, sia inutile piangere sul latte versato e che le colpe, quasi sempre, stiano nel mezzo.
Invece è utile capire dove siamo e come uscirne: non sta a noi allevatori cercare il colpevole, ma sta a noi fare quanto possibile per uscire in piedi da questa congiuntura negativa e trasformarla anzi in un’opportunità di cambiamento positivo ed economicamente premiante per la nostra attività agro-zootecnica professionale ed imprenditoriale.
Tra incudine e martello
Il settore ovino da carne è letteralmente allo sbando e disperso dietro le linee nemiche, dove regna un’atmosfera rarefatta e silenziosa.
I nostri competitor esteri si dividono in due tipologie principali, diametralmente opposte come approccio merceologico e di marketing del prodotto. Da un lato abbiamo Francia, Olanda, Belgio, Germania, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica ecc., che puntano ad una selezione top level, supportata da tecnologie sempre più moderne; sono gli stessi che ci vendono (giustamente) le loro selezioni genetiche da riproduzione a prezzi di mercato globalizzato, che nei loro Paesi hanno un senso economico concretamente sostenibile già oggi, ma che da noi sono ancora troppo alti e quindi praticamente non ammortizzabili nel piano finanziario-tipo della piccola azienda zootecnica italiana.
Poi ci sono quelli che invece fanno la “guerra al ribasso”, Paesi spesso al margine dell’eurozona o direttamente al di fuori che sfruttando i costi minori di manodopera e le minori pastoie burocratico/sanitarie, inondano il mercato italiano di carne ovina a prezzi imbattibili. Purtroppo la situazione è tristemente malsana, ma è anche frutto dell’eredità del sistema dei “contributi facili per tutti”, in virtù del quale il livello qualitativo e professionale non aveva nessuna importanza perchè tanto i soldi arrivavano comunque. Adesso quel capitolo è chiuso e non si riaprirà mai più.
In Italia il settore ovino da carne stenta ancora a stare in piedi autonomamente, anche se ci sono ampie nicchie di mercato che indicano una tendenza positiva.
I fattori negativi che gli gravitano attorno sono indubbiamente molti e concreti. Da una parte i dazi doganali sui prodotti caseari, che anche se non direttamente, di fatto influenzano negativamente tutto il comparto ovino; dall’altra la concorrenza sleale dei competitor esteri sul mercato nazionale che cercando le pieghe della normativa sfruttano il made in Italy pur non avendo realmente prodotti italiani veraci; aggiungiamoci il proliferare dei grandi predatori (lupi in primis, ma anche orsi e a breve anche linci) che stanno rendendo quasi impraticabile l’allevamento brado e semibrado dei greggi, e finiamo con le problematiche relative agli “alpeggi d’oro”.
In Italia e all’estero
Nonostante tutto questo, ci sono fette di mercato che stanno aumentando la richiesta di carne ovina: i consumatori musulmani (sempre più presenti, in Italia e in Europa) stanno tenendo vivi i grandi greggi vaganti lombardi e dell’arco alpino; alcuni “giganti” abruzzesi del settore della carne ovina continuano da anni a rastrellare pecore da tutta Italia e carcasse di agnelloni pesanti da mezza Europa per poi lavorarle in Abruzzo e confezionare i tanto famosi e richiesti arrosticini, da proporre sia nei banchi frigo della grande distribuzione italiana che come street food italiano fino a New York City; tutti questi ambiti stanno dando modo e tempo ai finora pochi casi virtuosi di “costruire” una fliera e un marketing sensato per educare il consumatore italiano verso il ritorno a un prodotto, la carne ovina, che qui da noi era tradizionale, ma che ormai è stato quasi dimenticato.
Nel mondo intero, sia nel Continente europeo che in quello africano, nel Sud America e in Oceania l’allevamento ovino sta facendo passi da gigante, consolidando un mercato gargantuesco.
La Cina ha “fame” di carne (e la peste suina sta favorendo il settore ovino), e la fa produrre dove serve per poi acquistarla in quantità mastodontiche; in India la grande fetta di popolazione musulmana consuma carne ovina (dato che la vacca è sacra per gli induisti), e tutti i Paesi in via di sviluppo economico stanno aumentando il consumo di carne.
Dalla carne alla lana pregiata, su tutto il pianeta il settore ovicaprino sta vedendo davanti a sé un trend positivo, e noi italiani siamo qui a “pietire miseria” anziché rivendicare la nostra fetta di mercato. È però ovvio che per rivendicarla e poterla conservare bisogna essere competitivi e professionali. Un punto a nostro favore è costituito dall’enorme patrimonio di biodiversità di cui, a mio parere, siamo gli indegni e poco scaltri custodi, e che il mondo intero ci invidia (vedi anche box).
Il nostro oro
Che sia giusto o no, il made in Italy è ancora un brand premiante (tranne che in Italia!); i nostri preziosi “patrimoni genetici” bovini, ovini, e canini finiscono ovunque – purtroppo alle volte senza le debite documentazioni e certifcazioni – ad “ingrassare” le mandrie e le greggi di mezzo mondo, e a proteggerle dai predatori più disparati negli habitat più diferenti. Dalla Romania alla Turchia, dallo Zambia al Congo, dall’Argentina al Brasile, dalla Nuova Zelanda all’Australia, dal Messico al Canada ci stanno “rubando l’oro dalla mani” pagandolo con un tozzo di pane, perché anche su questo fronte le scorciatoie poco limpide abbondano. (R.M.)
Bisogna competere
Le leggi di mercato ci obbligano a rendere questo ambito più etico e professionale; più che cercare di impietosire il pubblico, dobbiamo “educare” chi vuole aiutare il settore a spendere meglio i suoi soldi per pagare adeguatamente i prodotti nazionali (onesti e veraci); dobbiamo “cavalcare l’onda” positiva del settore anche noi, e in casa nostra: dopo tutto gran parte del territorio nazionale è composto da zone marginali, tradizionalmente vocate all’allevamento brado e semibrado, ideali per il pascolamento ovino; è imperativo però dotarsi di strumenti forti e competitivi: autoformazione, coordinamento e collaborazione tra colleghi, aggiornamento perpetuo, utilizzo di metodologie moderne (basate su selezione genetica e genomica), allevamento innovativo in abbinata alle conoscenze pastorali tradizionali italiane, tra le più antiche e rinomate al mondo.
Tra i tanti altri strumenti di questo genere, lo spirito imprenditoriale è probabilmente il più importante e il meno spiccato nella testa dell’ovinicoltore-medio. Cresciuti in tempi di assistenzialismo, oggi alcuni allevatori sono spiazzati, ma chi non si rimette in carreggiata velocemente e accetta di buon grado il cambiamento epocale che la nuova legge sulla riproduzione animale ha imposto, è destinato a chiudere. Tutti questi argomenti necessitano di un’attenta ed accurata analisi, che affronteremo nei prossimi numeri di Allevatori Top.
Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 02 di marzo 2020.
Image by wirestock on Freepik
Sii il primo a commentare