Dopo qualche numero in cui ho trattato nello specifico del settore ovino da carne, mi è stato chiesto di tornare a parlare della spinosa interazione (eufemismo generoso per evitare il termine conflitto) tra il mondo produttivo agrozootecnico e gli animali selvatici; nel variegato scenario nazionale abbiamo praticamente ogni tipo di presenza: dai grandi carnivori, predatori per eccellenza, alle loro prede naturali, quali gli ungulati, la piccola selvaggina in generale e quelle che una volta erano definite specie “nocive”. Prima di dedicare qualche pagina ad ognuno di questi protagonisti, farò una doverosa panoramica generale per tentare di inquadrare lo scenario che ci troviamo a fronteggiare noi allevatori, ma questa volta, proverò ad inserire tra le variabili che agiscono sullo scacchiere, anche il punto di vista e la prospettiva di un’altra importante categoria che ha spesso diritto di vita e di morte sugli animali selvatici: i cacciatori.
È notizia degli scorsi giorni che uno dei 7 lupi canadesi fuggiti dal Parc Alpha in Francia, vicino al confine italiano, è stato recuperato grazie alla collaborazione attiva dei cacciatori locali e dei loro cani da traccia. Vi farò sapere in seguito gli sviluppi; nel frattempo, l’esempio francese e di molti altri Paese esteri ci dimostra inequivocabilmente che la presenza dei cacciatori e delle loro attività di controllo e management del territorio e degli animali selvatici potrebbe – e a mio avviso dovrebbe – essere maggiormente integrata nel piano di gestione agricolo.
Questo proprio per creare delle sinergie tra questi due “mondi” che spesso, invece, finiscono per collidere (anche brutalmente), facilitando il “divide et ìmpera” delle lobbies veg-animaliste.
Diritto negato
Anni fa, più per necessità agricole che hobbistiche, ho preso la licenza di caccia anche per meglio capire la questione selvatico ed aver modo di prender parte attiva alla sua gestione, almeno localmente. Dato che avevo costanti danni alla mia azienda agricola, causati da cinghiali e caprioli, è stata fondamentale la collaborazione in prima persona con la squadra locale di “cinghialisti” per riuscire a mirare gli interventi e arginare i danni. All’epoca fu presentata una proposta di legge che avrebbe dato agli agricoltori che conducono un fondo, la possibilità di gestirne anche la fauna selvatica al fine di proteggere le loro coltivazioni; mi sembrò corretto che ognuno avesse la possibilità di metterci del proprio in sinergia alle ATC di riferimento… ma il provvedimento fu bloccato e rimandato a data da destinarsi. Di fatto ancor oggi gli agricoltori aspettano il diritto di difendere il loro reddito dai molteplici danni che una errata gestione faunistica arreca inesorabilmente, anno dopo anno.
Retorica del rewilding
È ovvio che l’impegno del singolo, per quanto virtuoso, non potrà mai raggiungere un qualsiasi risultato globale, sensato e duraturo; ritengo che solo una corretta ed armonizzata gestione corale da parte delle varie entità in gioco potrebbe realizzare l’ambizioso risultato di gestire gli habitat naturali in sinergia produttiva con quelli agro-pastorali e venatori. E qui ci si scontra non solo con le lobbies sopracitate, ma anche con gli schieramenti dei vari amministratori pubblici e delle associazioni di settore. Ognuna di queste entità giuridiche tende – giustamente? – a patrocinare i propri interessi e a seguire le proprie agende politiche; il problema è che troppo spesso, per seguire una linea coerente (e non ci interessa giudicarne nessuna!), i sopracitati enti non si preoccupano di risolvere quei conflitti locali che caratterizzano il territorio nazionale, né tanto meno di verificare se la realtà dei loro “protetti” (tesserati, soci, lavoratori e imprenditori agricoli, ecc.) sia sostenibile oppure no. Eppure al fine di realizzare questa – utopica – “gestione corale sinergica” dei vari territori nazionali, non mancherebbero né le basi teoriche né gli esempi concreti ed efficaci. Avremmo a disposizione fior fiori di studi accademici (italiani ed esteri), un buon numero di tecnici preparati in ambito di gestione faunistica e di recupero del territorio tramite pascolamenti razionali e prelievi venatori costanti e misurati al millimetro.
Insomma, non manca altro che la volontà politica di attuarli, ma a mio giudizio finché avremo a che fare con un’unica voce accreditata a livello ministeriale, che ci racconta che i grandi predatori sono una “risorsa turistica”, non se ne esce vivi.
Sull’altare di un fantomatico turismo di élite all’insegna del rewilding europeo, e sperando in un quanto mai improbabile afflusso abitativo di “neorurali” in fuga dalle grandi città, stiamo di fatto cancellando centinaia di anni di tradizioni culturali, agricole e zootecniche, che non potranno mai più essere recuperate.
Altro che turismo
Mi sembra insensato che nel nostro Paese il proliferare incontrollato del rimboschimento abbia un via libera totale senza alcun tipo di feedback da parte di chi dovrebbe vivere dentro ai territori.
Non è sufficiente rimuovere l’opera umana e la sua presenza da un’area affinché questa ritorni “naturale ed incontaminata”: l’immediato effetto è quello di un degrado incontrollato che porta a dissesto idrogeologico, e alla distruzione di quegli habitat montani tanto decantati per la loro straordinaria biodiversità.
Vorrei ricordare che pascoli e prati pascoli esistono solo in presenza del costante lavoro di allevatori e agricoltori che gestiscono virtuosamente le risorse del verde e della zootecnia; senza questa indispensabile presenza umana i fantastici paesaggi tanto cari al turismo scompariranno per sempre, per dar posto a selve impenetrabili inadatte anche a sostentare l’attuale mole di animali selvatici. (R.M.)
Ungulati e predatori
L’attuale approccio alla questione agricola e venatoria, più che una gestione virtuosa e sinergica ha tutte le caratteristiche di una non-gestione o di una colpevole mala-gestione nei casi estremi: possiamo parlare dei molti incidenti stradali (anche mortali purtroppo) dovuti all’eccessiva pressione degli ungulati nelle zone antropizzate, addirittura in grandi centri urbani come Genova o Roma, o della piaga delle predazioni. Negli anni ho dovuto accettare il fatto che in Italia i grandi predatori godono di un “passe-partout”, che di fatto conferisce loro una totale immunità. Possono impunemente predare i capi di bestiame, e ormai siamo arrivati alle predazioni degli animali da affezione nei giardini residenziali e agli attacchi diretti agli esseri umani. Anche in questi casi gli interventi delle autorità competenti sono pressoché nulli: no comment.
Nei prossimi articoli dedicherò attenzione, singolarmente, ad ognuno di questi aspetti, nella speranza di produrre una panoramica chiara e che dimostri inconfutabilmente che le sinergie virtuose portano a ricadute positive in qualsiasi ambito. Mi auguro di riuscire a dipanare, se non altro teoricamente, questa enorme matassa che coi suoi nodi sta letteralmente legando il sistema produttivo agro-zootecnico con spire soffocanti e spesso mortali.
Articolo pubblicato sulla rivista Allevatori Top n. 09 di novembre 2020.
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